Trionfo di San Rocco
La Via San Rocco vince il palio delle Contrade
Artenat dal mondo
Il Decennale Mariano ha richiamato gente da tutto il mondo.
Il Decennale Mariano 2015
Una festività che si svolge ogni 10 anni
Il Paese
Tra le cinque frazioni del Comune, Arten è la maggiore.
San Nicolò
La chiesetta di San Nicolò adiacente al cimitero
La Madonna delle Scalette
Uno dei più grandi e belli capitelli nel Paese
San Gottardo
La chiesa principale del Paese
Sagra di San Gottardo

Sagra di San Gottardo

Published: Maggio 03, 2016
Tutto pronto per la Sagra di San Gottardo in onore del patrone del Paese.
La Sagra si terrà presso il parco giochi di Arten.
    VENERDI' 29 APRILE
  • Ore 19.00: Apertura frasca e bar. Piatto del giorno: BACCALA'.
  • Ore 21.30: Musica sotto il capannone con DJ AMOS.

    SABATO 30 APRILE
  • Ore 19.00: Apertura frasca. Piatto del giorno: PAELLA.
  • Ore 21.30: Musica dal vivo con CANEVA SOUND.

    DOMENICA 1 MAGGIO
  • Ore 12.30: Pranzo Comunitario. Iscrizione presso i bar e gli alimentari.
  • Ore 15.30: Animazione per bambini e adulti.
  • Ore 19.00: Apertura frasca. Piatto del giorno: PIZZA.
  • Ore 21.30: Musica con DJ AMOS.

    GIOVEDI' 5 MAGGIO
  • Ore 10.00 Santa Messa
  • Ore 20.00 SANTA MESSA PER IL PATRONO SAN GOTTARDO
  • Messa Cantata dal coro "Schola Cantorum" di Arten
  • Dopo la messa incontro conviviale presso il centro parrocchiale.
  • CI SARA' IL MINESTRONE
Ndar a ciamar Marz 2016

Ndar a ciamar Marz 2016

Published: Dicembre 29, 2015

Lunedì 29 Febbraio si terrà la tradizionale ricorrenza del "Ciamar Marz", in cui giovani e bambini scorrazzeranno per le vie del paese cercando di fare più baccano possibile per chiamare la primavera.
Vi aspettiamo numerosi al centro parrocchiale alle ore 16.45 con tutto l'occorrente per far più rumore possibile.

Il tutto si dovrebbe concludere alle ore 18.00, in caso di maltempo la manifestazione verrà annullata.

Immagini Processioni Decennale 2015

Immagini Processioni Decennale 2015

Published: Agosto 25, 2015
Arten in fermento Immagini - 22 Agosto

Arten in fermento Immagini - 22 Agosto

Published: Agosto 07, 2015

Pubblicate nuove immagini del paese che si prepara al grande evento.
clicca qui per visualizzare

Opuscolo Decennale Mariano 2015

Opuscolo Decennale Mariano 2015

Published: Luglio 17, 2015
Ecco l'opuscolo finale del programma del Decennale Mariano, potete leggere online cliccando nell'anteprima qui sotto o scaricarlo in formato pdf cliccando qui.

 

Vuoi un riassunto veloce? Scarica il manifesto dell'evento.
Programma Decennale Mariano

Programma Decennale Mariano

Published: Giugno 27, 2015

In allegato una anticipazione del Programma per i festeggiamenti del Decennale Mariano.

Clicca qui per scaricare il programma in pdf.

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L'alluvione del 1966

Nel Novembre 1966 ad Arten il torrente Levica straripò e allagò buona parte del paese.
Nello stesso periodo le acque del Cismon portarono via il ponte di Frassené.
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La Giustizia nella Provincia della Cargna


Durante il dominio della Serenissima Repubblica di Venezia l’amministrazione della giustizia nella ''Provincia della Cargna'' era riservata al Tribunale di Tolmezzo e le pene erano ratificate dal Consiglio della Terra.
Di quali delitti si macchiavano i nostri progenitori in quei secoli remoti? Sicuramente degli stessi che fanno tanto scalpore nella nostra società attuale e di questi non ne furono certamente esenti i nostri compaesani. Si andava dalle imprecazioni alle ingiurie, dalle violenze al furto, dalle percosse agli omicidi.
Lo storico locale Giovanni Gortani, già altre volte citato, ha trascritto numerosissime sentenze criminali emesse dal sopraccitato Tribunale; di queste, abbiamo potuto esaminare gli anni 1538-1565 ed emergono un numero impressionante di atti di violenza. In quel periodo, in Carnia, vi furono diciannove persone che, per mano altrui, persero anche la vita e la maggior parte di questi omicidi avvenne sempre a seguito di liti furibonde. Semplici diverbi scoppiati per cause apparentemente futili, complice molte volte l’alcool, sfociavano in atto di violenza che, alle volte, poteva divenire mortale se l’aggressore brandiva un qualsiasi oggetto offensivo (legno, sasso, pugnale, spada).

I castighi naturalmente erano proporzionati alla gravità della colpa e per il colpevole, sempre identificato con certezza di prove, costituiva un’aggravante determinante la sua contumacia. Ciò portava inevitabilmente ad un inasprimento della pena. Si andava dalla sanzione pecuniaria alla fustigazione, dalla messa alla berlina alla carcerazione, dal bando temporaneo al servire sulle galere venete. Nei casi più gravi era previsto il taglio della mano destra ed anche la pena capitale che, per il condannato, prevedeva, nei tempi più antichi, la decapitazione con successivo squartamento; ultimamente divenne d’uso anche l'impiccagione.

Di tutti i casi di omicidio esaminati, in solo due di essi il Tribunale di Tolmezzo emanò, al termine del processo, una sentenza capitale. La prima “sententia criminalis decapitatoria ad mortem” fu emessa nel 1540 a carico di un certo Valentino figlio del fu Domenico Pilinini, pescatore di Somplago di Cavazzo, riconosciuto colpevole di aver ucciso il suo compaesano Giorgio Biliani. Non ci è dato sapere se la pena capitale, che prevedeva per il Pilinini il taglio della testa su di un palco appositamente preparato (“amputetur caput illius a spatulis”), sia stata eseguita.
Si concluse invece, effettivamente sul patibolo, la condanna a morte comminata a Piero figlio del fu Francesco Piero del Basso, nativo di Arten del distretto di Feltre. Costui era un balordo vagabondo che andava elemosinando fingendosi ammalato. Fu riconosciuto colpevole di aver assassinato a bastonate, nei pressi di Forni di Sotto, un vero e povero mendicante di Treviso il quale, per giunta, era anche gobbo. La sentenza di condanna a morte venne emessa il 24 novembre 1539 ed eseguita nello stesso giorno ''...et presente multitudine tam populo quam territorij.'' (e presente una moltitudine tanto di popolo – di Tolmezzo, n.d.r. - quanto del territorio), come attestò il notaio Cristoforo Angeli che la annotò nei pubblici registri: ''...Petrum Bassi predictum, taliter quod obijt hic in Platea Tumetij, et ita divisum duxit extra portam inferiorem in loco solito, ubi in furcis quartas suspendit...'' (il predetto Pietro di Basso è stato squartato in quattro parti di modo che è morto qui sulla piazza di Tolmezzo e così diviso è stato portato fuori della Porta di Sotto, nel solito luogo, dove i quarti sono stati appesi sulle forche).

Da ''La Storia: Capitolo Quarto'' - Giulio Del Bon


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«SIGNOR DE CODER»

(o «SIGNOR DE CHEGOLA»)


Signor de Coder

Bortol Susin Innocente fu Pietro detto «Bortolo Coder» o, meno comunemente «Bortol Chegola»: era nato nel 1871; morì, povero e solo, nel 1956.

Fu persona mite e tranquilla, ma sfortuna di non poter avere lineamenti regolari gli si ritorse contr e gli fece vivere un’esistenza soggetta agli scherzi talvolta molesti dei suoi paesani e alle prese in giro burlone.

Gli Arteniesi si distinsero, soprattutto nel passato, per l'attenzione causticamente rivolta ai difetti altrui (massime degli estranei) e al gusto mordace di evidenziarli. Abbiamo ricordato nella prima parte di questa ricerca «Meno Minot»; richiamiamo qui brevemente alla memoria le vicende di un povero diavolo trapiantato ad Arten da Arten partitosi con l'amarezza di non esservi potuto regnare. Poiché natura lo aveva fatto nascere un po' più brutto degli altri dovette dimenticare il suo nome di battesimo per assumere quello di «Zaca-grili», impietosamente pronunciatogli in faccia e gridatogli dietro per le strade e nelle osterie. Un giorno il povero «Zaca-grili» trovò il gabinetto di legno in mezzo al paese, esposto alla contemplazione e alle risa e questo, a dire il vero, fu uno scherzo un po' troppo esagerato.

Bortol Susin aveva il labbro inferiore vistosamente conformato a sacca rigonfia ed ecco l'origine del soprannome che gli causò dispiaceri finché visse.

Per il resto era nato da donna come tutti, rispettoso e devoto, assiduo frequentatore della Chiesa, crocifero per scelta e per amore.

In età avanzata l'abitudine alla preghiera era trasformata in lui in una specie di fissazione, per cui recitava le sue orazioni ad alta voce, ovunque, soprattutto davanti a un capitello, accompagnandole da un incontrollato gesticolare e da ripetuti segni di croce che suscitavano le risa.

All’anagrafe era iscritto come agricoltore, in realtà arrivò a sperimentare anche l'umiliante condizione del nulla abbiente, solo e abbandonato, ma incapace di elemosinare per un istintivo senso di discrezione e di dignità.

La Marietta «Bach», che gli abitava vicino, lo sapeva e gli chiedeva:
-Avete mangiato oggi?
Egli rispondeva evasivamente, tutto confuso e lei capiva che se non gli avesse dato una fetta di polenta avrebbe saltato il pasto.

Per la croce egli nutriva venerazione e rispetto particolari. Se ne era tacitamente arrogato il privilegio di portarla, davanti a tutti, nelle processioni e nei funerali.

Ora avveniva che lungo il Canalet passasse la seconda Rogazione: quella che, provenendo da San Nicolò e da Tavarser, giungeva fino al confine con il comune di Pedavena.

Il sacerdote sostava per benedizione davanti al Signor del Castel, alla Croce di Golli, a un altarino con immagine sacra che la Marietta esponeva all'ingresso di casa sua e quindi al capitello di confine.

Poco oltre metà strada Bortolo Susin aveva una vigna e desiderava vivamente che il sacerdote si fermasse a benedirla, ma non vi era alcun simbolo di fede che ne giustificasse la sosta. Ecco allora nascere un lui l'idea di porvi una croce. B.T. afferma che era ancor piccolo quando Bortolo «Coder» andava da suo padre a chiedergli un'offerta, un contributo per piantare la croce e ricorda che suo padre gli diceva:
- Ma, andate a raccogliere soldi per piantare una croce? Se non ne avete fate a meno di piantarla.

Alla fine il vecchio la spuntò.

Il castagno sembrerebbe essergli stato donato da «Micel Paz» (Michiele Toigo) che possedeva una vigna a confine; la squadratura sarebbe stata eseguita da un altro vicino.

Tutto il lavoro di preparazione, invece, fu opera sua. Poi, quando il grande legno fu fissato al suolo, prima ancora che venisse raggiunto processionalmente per essere benedetto, ci fu l'esplosione di gioia di tutti coloro che in qualche modo avevano dato una mano.

Si prepararono alcune tavole davanti all’osteria di «Minot» (attuale civico 120 si Via Nuova) e si fece una grande merenda alle grida di «Eviva Bortol Susin!... Eviva Bortol… Coder!».

Eravamo poco oltre il 1930 e parrebbe che quella fosse anche la prima croce ad essere eretta in quel luogo.

La Rogazione incominciò a fermarsi a Bortolo Susin dovette in cuor suo essere contento; ma lo spireito cattivello degli abitanti di Arten, che non poteva starsene a lungo sopito, si risvegliò prontamente.

Come se non bastassero i molti tiri che gli venivano giocati mentre lavava i panni nell'acqua del torrente o l'oscuramento della finestra mentre si radeva la barba, di mattina presto, prima che la processione passasse, istigati dai grandi, i ragazzi raggiungevano la croce e vi appendevano un coder bene in vista.

Quello che succedeva quando Bortolo, passando davanti a tutti, vi posava gli occhi, non ha bisogno di essere menzionato.

Il nostro vecchio morì e la croce, non avendo più chi la curasse, marcì velocemente a causa delle infiltrazioni d'acqua che penetravano dalle tavole del tetto.

Il Cristo di legno, invece, crivellato dal tarlo per vetustà, e reperito chissà dove, venne nascostamente «deportato».

La croce attuale non è più quella di prima. Essa venne completamente rinnovata nel 1981 da Remo «Cos-cion» (Remo Toigo), (1) il quale contribuì in questo modo a salvare uno dei pochi segni che ancora ci ricordino il nostro debito di civiltà verso coloro che ci hanno preceduto.

Giuseppe Toigo


(1) Il tronco di castagno venne offerto, stavolta, da Armando De Bastiani.
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LA MADONNA DELLE SCALETTE

Giuseppe Toigo


Croci e capitelli sono la più autentica testimonianza di quel mondo contadino che viveva in maniera schietta e semplice gli ideali religiosi; testimonianza, però, tanto carica di fascino quanto di mistero, per cui non sempre vi emergono i contorni nitidi della storia.
Bisogna infatti partire dall'idea che tutto ciù che è popolare assai raramenti trova riscontro in documenti, perchè la storia di popolo non è pagina scritta, ma vita vissuta, emozioni che spontaneamente si traducono in atti, legno e pietra lavorati e strutturali in dorma di oggettti o di somboli visivi.
Essa è anche in particolare, memoria che si tramanda, con tutte quelle contraddizioni e incongruenze che dipendono da una molteplicità di fattori umani e temporali.
Mentre il tempo attenua e sbiadisce, l'immaginazione aggiunge e trasforma, e conferisce al fantastico parvenza di oggettività; un evento straordinario diventa miracolo e il miracolo infiamma di nuovo zelo gli animi sempre oscillanti tra sacro e profano, tra fede e superstizione.
Sul capitello della Madonna delle Scalette, leggenda e storia si confondono talmente che il vero sfugge a ogni tentativo di accettarlo.
Ma concentriamo l'attenzione sullo strano masso granitico, approssimativamente ovoidale, postovi a fianco sul lato di Arten, fra i due cancelli di accesso alle vigne soprastanti.
Essa non è una croce in ''memoria'', ma conferisce nel suo libretto di note e ricordi fonzasini il dottor Angelo Vigna(1), il quale racconta di un agguato teso da banditi ad una comitiva di passanti che tornavano da Feltre e terminato con l'uccisione di un certo Domenegato.
Egli aveva raccolto la notizia da un'anziana donna che prestava cure al capitello un fiorno in cui lui, ancora giovane, camminava con un amico lungo la strada vecchia.
''Di notizie ne riferiva molte e spontaneamente - mi scrisse alcuni anni fa da Baselga di Pinè – con tenta che noi la stessimo a sentire''.
E ben disposta a parlare, quella donna raccontava di un ex voto recato come ringraziamento alla Madonna della Scaletta da coloro che erano riusciti a scampare al pericolo e indicava la data che suo nonno,scalpellino a Fonzaso, avrebbe inciso sul sasso.
Ho appena accennato alle molte distorsioni di una tradizione esclusivamente orale, che deve essere accolta con cautela e solo dopo averla lasciata ben sedimentaare.
Quale data, infatti?
Perchè su una faccia del sasso (l'altra reca un nome soltanto) le date scolpite sono due e sono accompagnate da scritte.
Per chi fosse attratto dalla curiosità e volesse constata tre di persona, le ho recentemente pulite e rese più leggibili evidenziandole con un segno leggero di vernice bianca.

Scritte sul masso

Prima di procedere, osservo appena che nulla toglie alla possibile veridicità del racconto della solerte donna, ma che i fatti eventualmente accaduti non hanno alcuna attinenza con il pesante masso scolpito.
Sulle date e sulle scritte s'ingannò anche Regina Canova Dal Zio, che nella schedatura dei capitelli della zona si chiede se quel RIPOSTO no sia sinonimo di ''rimesso'', riferito al blocco di pietra o di ''ricostruito'', riferito al capitello.(3)
Precisiamo subito la questione: fino agli ultimi anni del '700, quando la proprietà privata era ancora troppo mal distribuito, le leggi venete prevedevano l'assegnazione di porzioni fi territorio, i cosidetti beni comunali, ai contadini non abbienti di una comunità.
Se dislocati sulle cime dei monti, tali beni servivano per il pascolo degli animali minuti; sulle coste ripide e ghiaiose consentivano l'utilizzo della legna o la zappatura, sul piano si prestavano al taglio dell'erva o alla coltura delle biade. (4)
Senza entrare nel merito delle frequenti indebite usurpazioni, cui i rettori veneti sovente accennano, seguiamo la vicenda delle liti; liti aspre e interminabili non tanto fra privati, ma fra abitanti dei villaggi arrigui: fra Lamonesi e Faleroti, per esempio; oppure, tra Faleroti e Fonzasini, Fonzasini e Arteniesi, tutti uniti, all'interno della singola comunità, nella disperata difesa del diritto alla sussistenza.
I giudici compromissari, accompagnati da periti e deputati (questi ultimi eletti dalle rispettive partu in causa) si recano nel luogo della contesa; controllavano, ridefinivano i confini e in nome di Cristo e della Vergine ;aria emettevano la sentenza, non prima, però, di aver fatto incidere sui termini divisori la croce, quale supremo richiamo al rispetto delle decisioni prese in nome si Colui da cui precedono giusti e infallibili giudizi (recta et infallibilia procedunt iudicia).(5)
Se dive supporre che gli animi subito si rappacificassero, ma quando la pecora sconfinava o un taglio di legna non seguiva la linea retta stabilita, le controversie rirepndevano.
Fu a causa di un'ennesima rivendicazione di antichi diritti lungo le coste del Monte Avena che il 27 maggio 1805 i giudici di Carlo Taola e Cristoforo D'Agostini sentenziarono che Fonzasini e Arteniesi si attenessero alle ''molteplici uniformi sentenze emanate in diversi tempi'' e ''segnata del Signor Valeriano Angeli 27 giugno 1735''.(6)
Ecco le date che interessano:1635 e 1735 – sono le stesse che si vedono scolpite su una faccia del sasso intorno al quale finora si è ragionato, per cui è chiaro che esso altro non è un sasso di confine.
Ad ovest, lungo la linea retta che finiva sul temine del Coston d'Avena (termine tuttora segnato sulle mappe, ma non più individuabile, a causa dell'incendio di vent'anni fa) si estendevano i fondi comunali di Fonzaso, ad est quelli di Arten.
Ora incomincia ad avere una storia anche il capitello, poichè è indubbio che con il termine di pietra che gli è a fianco, anch'esso assolve, tra le altre, a una identica funzione. (7)
Mentre infatti l'autorità pubblica sceglieva per i suoi scopi spigoli e tracce naturali o grandi blocchi inamovibili, i contadini nudi di sostanze o a malapena aggrappati a lembi di superficie sassosa, gravati di balzelli e vessati da leggi ingiuste, soggetti alla terra e si essa nati per patire, contrassegnavano i punti strategici del comune spazio vitale con i loro unici segni di certezza e di speranza.
Quando nel 1921 la curazia di Arten sarà elevata a parrocchia, i vecchi confini che separavano la proprietà fra le due comunità civili limiteranno anche le pertinenze fra le due comunità religiose facendo cadere antiche rituali consuetudini.
Muterà percorso, da quella data, la rogazione che da Fonzaso giungeva al capitello per terminare a San Nicolò, mentre invece sarà la nuova parrocchia con la sua seconda processione penitenziale a salirvi, sostare per le preghiere propiziatorie e la benedizione ai campi e volgere per la Crosera e Traverser fino alla chiesa.
Nella società agricole il senso di coesione tra persone dello stesso ceto era vivo e la pratica della solidarietà estesa, per cui ogni cosa era frutto di volontaria partecipazione e di scambievole aiuto.
Nelle manifestazione esteriori della fede lo era una croce eretta su una balza di monte, un modesto tabernacolo o un ambizioso manufatto di pietra.
Il capitello della Madonna delle Scalette, di elaborata fattura, sarebbe non solo opera di popolo, ma, stando alle memorie trasmesse dai vecchi di San Nicolò, vedrebbe direttamente direttamente interessata la ricca famiglia dei Ciaro.

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Dei Ciaro ovvero dei De Boni, non si trovano proprietà denunciate all'estimo del 1717.(8)
Si rinvengono tracce, invece, nei registri anagrafici della seconda metà del '700 e soprattutto nell'800.
Sono onorati con l'appellativo di Ser (Signore) che li distingueva dal popolo basso; figurano sempre come possidenti di civile condizione e con altri possidenti normalmente di imparentano accrescendo via via il patrimonio.
Alla chiesa essi danno vocazioni femminili e maschili.
Per un periodo di tempo, a partire dall' '800, sarà un don Antonio De Boni che battezzerà i nati del suo parentado.

masso

Informo anche, ma solo tra parentesi, che intorno al 31 un altro sacerdote, suo omonimo, sarà sottoposto al controllo del superiore per via di una certa ostinata persistenza nell'assai comune vizietto di bere. Cosa, tuttavia, che non gli impedì, insieme con altri due fratelli, dei quali uno, come lui consacrato a Dio, di fare un lascito generoso ai diseredati del paese.
Dal 1847 al 1879 sarà arciprete don Angelo De Boni.
Era privilegio delle famiglie nobili, ma nel 1877 riusciranno anch'essi ad avere il loro piccolo oratorio domestico provvisto dell'occorrente per la celebrazione della messa.(9)
Le loro proprietà si estendevano ormai su larghe fasce della montagna e della campagna.
Ad Arten, ed è quello che fa al caso, ne possedevano tutt'attorno a San Nicolò: dalle Vignole, al Col, al piano sottostante, e vi avevano la casa padronale con stalla e abitazione colonica.
Ritorniamo ora sul capitello. La struttura è quella di un manufatto rustico, ma con una sobria ricerca di effetti architettonici.
La vergine, nonostante il sovrapporsi di vari e approssimativi ritocchi in occasione dei restauri, rivela ancora il suo originale decoro: figura snella, tratti gentili, viso dolce ed espressivo.
Con il bambino e le testine di angioletti armoniosamente disposte, forma un insieme che presuppone un affrescatore sensibile e uso al pennello.
Singolare e indicativo anche lo spazio che l'edicola occupa: un tratto di carrareccia pubblica per tutta l'ampiezza del pronao, una parte di suolo privato (ora mappale 192) per la lunghezza della scalea. (10)
Sul muricciolo che di quel mappale esclude la punta ovest, ora ridotta non più che a scapata incolta, rimangono ancora, a copertura, cinque lunghe pietre in parte lavorate.

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Come ricordo bene le scivolate lungo la superficie levigata, con i ragazzi della contrada! Un sasso liscio e scorrevole ad uso di cuscino, un colpo secco di reni e giù, in precario equilibrio, pronti ad evitare con una capriola l'urto contro il pilastrino finale.
Ci stupivamo, a quell'età, che pietre così grosse e dure si fossero usurate per n gioco di ragazzi.
Ma non era e non poteva essere così anche se bisognava attendere che l'occhio diventasse più attento e più esperto per osservare che ciascuna di esse era forata superiormente in entrambi i lati corti. Interrate, pertanto, con la parte grezza e lasciate a vista con la parte levigata, un perno rigido infilato tra foro e foro le avrebbe tenute allineate e livellate per abbellire aiuole di giardino.
Per questo particolare (perchè è chiaro che esse non potevano provenire da tuguri contadini) e per gli altri, appena sopra accennati, difficilmente si può quindi pensare all'edicola come a un'iniziativa isolata di popolani senza mezze e senza appoggi e pertanto le covi che correvano a San Nicolò possono ritenersi non prive di fondamento.
Ma, allora, la Madonna delle Scalette rivelerebbe anche la sua età: non molto lontana nei secoli, perchè tale non era neppure la radice dei facoltosi Fonzasini, ma riconducibile, se non altro per lo stile, alla fine del '700 o algi inizi dell' '800.
Un po' appartata, ma non tanto da non essere familiare, in posizione elevata e immersa tuttora in un agreste silenzio, essa domina per largo raggio i prati e i boschi degli abitanti di Arten.
Un tempo quando la retta non era stata sconfitta dalla fabbrica e i contadini si contendevano pacificamente la zolla o il pugno di erba lungo le viottole, a questa Vergine dei campi e non ad altre giungevano in lunga processione a chiedere la pioggia benefica nell'estate riarsa. Eppure, nessuna intitolazione essa aveva mai avuto la distinguesse per un particolare potere taumaturgico, come la vicina Madonna delle Grazie o del latte di San Nicolò. (11)
I quindici gradini che bisogna salire per poterci accedere l'hanno resa nota a tutti con il titolo, semplice e affettivo, di Madonna delle Scalette.
Giusta custode dei confini, forse già dalla famosa sentenza del 1805, essa è stata anche imparziale ascoltatrice di un gran numero di gente di ogni provenienza e di ogni condizione che passava e sostava: anonimi raccoglitori di elemosine, venditori ambulanti di piccole cose, carrettieri con i loro carichi di legname e di baghe(12) o di quant'altro serviva per esigenze di una società parca di consumi.
Ma prima che la vita imponesse ritmi e interessi nuovi, fino a lei arrivavano anche grotte di bambini vocianti e adolescenti innamorati che ricoprivano i muri con i segni e le scritte delle segrete palpitazioni.(13)
Se si volesse, a questo punto, toccare anche quella pruriginosa e campanilistica quetione che riguarda la proprietà del capitello (questione peraltro poco pertinente e del tutto marginale, trattandosi di un simbolo di fede e non di un bene materiale) mi parrebbe il casi di dire soltanto che, a prescindere dalla sua collocazione di qua, anzichè di là dal termine divisorio, esso è sempre appartenuto alla storia, alla tradizione e agli affetti, soprattutto agli affetti, dei contadini di San Nicolò e di Arten.(14)
Non stupisca, pertanto, il loro modo di pensarla, mentre pregavano dal basso della loro condizione, come una di loro; di attribuirle i gesti e i sentimenti propri di ciascuno di loro. Solo così si può spiegare, senza riderne, quella impossibile e illogica credenza che per essi era verità.

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Erano peruasi dunque, che questa loro Madonna avesse altre due sorelle: una a Caupo e una a Pedancino. (15)
Alla mezzanotte precisa, tra il 24 e il 25 marzo(16) di ogni anno, accadeva il miracolo: la Madonna di Pedancino attraversava la campagn, giungeva alla sorella delle scalette e con essa partiva per far visita a quella di Caupo.
Anche un folto corteo di essere misteriosi biancovestiti e con lumini accesi avrebbe accompagnato, secondo alcuni, quella visita prodigiosa.(17)
Con un rito che ancor oggi trova devoti prosecutori, ogni anno, la stessa notte, alla stessa ora, i nostri avi si recavano a l capitello delle scalette in raccolta preghiera.
Ai piedi della scala si giravano verso la campagna, recitavano l'Angelus e rimanevano in attesa scrutando l'oscurità.
Accanto al primo gradino, alla base del muricciolo di cui ho già parlato, ve erano e v'è tuttora, un grosso sasso tondeggiante, incavato da abile scalpello e munito, fino a un certo tempo, di protezione con chiusura.
Qualcuno accompagnava il suo atto di fede deponendovi un obolo, alla maniera di altri pellegrini e di passanti occasionali prima che il coperchio scomparisse senza che la memoria ne possa render conto.(18)
Lungo la strada vecchi passa oggi un traffico veloce e l'antichissima via che tagli o per il Canalet è periodicamente invasa da erbacce e rovi.
A San Nicolò sono rimasti in pochi.
Le vigne sono diventate boschi e il capitello pare isolato da un silenzio più profondo, anche se non è dimenticato.
Alla Vergine non accorrono più i contadini elevanti preghiere per i raccolti dei campi; ma i bisogni sono solo mutati.
Assicuratisi il cubo per altre provvidenziali vie del progresso, i fedeli di questa fine tormentata di secolo, il 31 di maggio di ogni anno salgono ancora a lei dal paese; vi si raccolgono intorno meno numerosi, ma non meno devoti, e ne chiedono l'aiuto per quelle mille cause di ansia e di inquietudine che travagliano l'odierna esistenza.

Giuseppe Toigo




Note
  • 1) A. VIGNA, Fonzaso, 1965, pp.95-96
  • 2) Sono molto perplesso sull'esistenza della C che, peraltro, appare evidente in fotografia con il gioco delle ombre. Essa sarebbe, comunque, l'iniziale di Confine. L'abbreviazione, F.so, sta per Fonzaso. RIPOSTO ha valore figurato: non si riferisce propriamente al sasso, ma al confine e assume il significato di espressioni come questa: ''ridefinito il confine''.
  • 3) Cfr. REGINA CANOVA DAL ZIO, I capitelli di Arsiè, Fonzaso, Lamon, Sovramonte, Vicenza, 1979, pp. 108-109.
  • 4) Relazione di F. Salomon, 30 aprile 1636, in Relazioni dei Rettori Veneti, ecc. , p.399.
  • 5) Vedi: Per il Comun e Uomini di Faller … contro il Comun e Uomini di Fonzaso, sentenza del 1557, Arch. Parr. di Faller.
  • 6) Sentenza compromissaria tra le Comunità di Lamon e Faller, Faller e Fonzaso, Fonzaso ed Arten in punto di riconfinazione de' rispettivi Beni, 27 settembre 1805, Arch. Parr. di Faller.
  • 7) Funzione di ripartizione delle proprietà tra abitanti di due comunità civili, non religiose; di borghi limitrofi, quindi, non di parrocchie. Alla stessa maniera è capitello di confine quello del Canalet e può considerarsi tale il Cristo de' Art sul M. Avena. A confine tra Arten Caupo c'era, un tempo, una croce ora scomparsa.
  • 8) Estimo 1717, Arch. St. Com. di Felte.
  • 9) Per le norizie qui riportate si confrontino I registri anagrafici dell'arch. parr. di Fonzaso, Visitationes CXXXIV, 1888, f. 197 r. e v. in Arch. Curio Vesc. di Padova e Atti relativi alla istituzione dellInstituto elemosiniere e Compenetrazione di questo colla Congregazione di Carità, 1856-1868, A. C. F. .
  • 10) La particella contrassegnata con il mappale 192 appartenente al Beneficio della Chiesa di S. Nicolò fino al 1773. Con la morte del priore don Antonio Gaio, avvenuta nello stesso anno, il vescovo di Padova ne decretò l'abolizione e l'incorporazione nel Beneficio parr. di Fonzaso.
  • 11) Per maggiori notizie cfr. : G.TOIGO, La Madonna delle Grazie di s. Nicolò di Arten, ''El Campanon'', 1987 nn. 67-68, p.10 segg.
  • 12) Baghe ovvero pelli di animali.
  • 13) Dopo il penultimo restauro del 1960, circa, (un precedente era stato fatto nel 1928, l'ultimo nel 1985 a cura di Brentel Giuseppe e Toigo Emma per una loro devozione privata) le scritte sui muri divennero via via più rade fin quasi a scomparire, non solo per l'invio alla buona educazione esposta a grandi lettere, ma per il mutare della vita e dei costumi. Il penultimo intervento, favorito dal parroco son Tarcisio Rosin, ha avuto il demerito di aver ricoperto con pannelli truciolari l'originale travatura, che poteva essere o sostituita o rimessa a nuovo. Sarebbe auspicabile che Toigo Angelina ''Tripoli'', che attualmente accudisce l'edicola, riuscisse a farsi promotrice di un lavoro di ripristino o di rifacimento del tetto, così com'è avvenuta per la Madonna di S. Nicolò.
  • 14) Aggiungo qui un nota, per non frammentare il racconto, che tradizionale custode del capitello, per oltre mezzo secolo, è stata Elvira Toigo, la quale, alla soglia dei novant'anni, lo visita ancora ogni giorno. Prima di lei lo era stata Angela Zanin, sua suocera e mia nonna, che ne aveva presi cura quando era entrata sposa in quella famiglia dei Toigo che da sempre avevano lavorato le terre di S. Nicolò prima e di S. Maria di Fonzaso poi.
  • 15) Verso la Madonna di Pedancino, i fedeli di tutta la conca del Feltrino occidentale nutrivano una particolare devozione. Annualmente, il diciotto d'agosto, anche quelli di Arten si riunivano in folto gruppo, alle prime luic dell'alba, con zoccoli e calzature contadinesche ai piedi. Percorrevano, orando, i quindici chilometri di strada dissestata, attraverso Rocca e Incino e scendevano al santuario di Cismon dentro il quale scioglievano il nodo dei loro fardelli ricolmi di incondizionata fiducia nel cuore di quella Vergine che si diceva essere stata trovata sopra il lieve ricamo dei fiori d'un biancospino.
    Il ritorno avveniva lo stesso fiorno, spesso a tarda sera, con quella composta serenità dell'animo che compensava lo scarso ingombro della polenta e companatico messi nella sacca come cibo della giornata.
  • 16) Il 25 marzo ricorre la festa dell'Annunciazione.
  • 17) Per conoscere un'altra variazione di questa leggenda, si veda: G. TOIGO, Croci e Capitello di Arten. ecc., ''El campanon'', nn.69-70, 1987 p. 14.
  • 18) Nella scanalatura dell'incavo è infisso ancora un cardine.
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SAN GOTARDO

Vita Grama



Feltre el à par patroni San Vittore e Santa Corona; Mugnéi el à San Marco; Caup el à i Santi Vito e Modesto, séntha contar Santa Lùthia – tanti santi par on paesòt tant pithol -; Artén el à par patrono San Gottardo.

Feltre ha per patroni San Vittore e Santa Corona; Mugnai ha San Marco; Caupo ha i Santi Vito e Modesto, senza contare Santa Lucia – tanti santi per un paesotto tanto piccolo –; Arten ha per patrono San Gottardo.


De drio de l'altar maior de la Césa ghe n'è la pala de sto santo; a causa che là l'è tant scur, no se pol veder ben la pitura. El autòr de sta opera de arte no se sa chi che l'è stat; però se pol asegurar (dir de segùr) che, a causa del fum de le candele del altar, en vari secoli se à formà tel quadro na pàtina de calìu che no se pol distinguar gnint de la composithiòn. Vardando ben, se pol veder na facia con on capèl de vescovo; sto detaio (particolar) el fa pensar che san Gottardo el dovéa èser stat on vescovo; la cosa l'è che noi paesani no se ghe déa tanta importantha sora l'argòmento.

Dietro all'altare maggiore della Chiesa c'è la pala di questo santo; a causa che lì è tanto scuro, non si può vedere bene la pittura. L'autore di quest'opera di Arten non si sa chi è stato; però si può dire di sicuro che, a causa dei fumi delle candele dell'altare, in vari secoli si è formata sul quadro una patina di fuliggine che non fa più distinguere nulla della composizione. Guardando bene, si può vedere una faccia con un cappello da vescovo; questo dettaglio ci fa pensare che san Gottardo doveva essere stato un vescovo; cosa a cui noi paesani non davamo tanta importanza.


El quatro de maio de tutti i ani se celebréa la festa del patrono.

Il quattro di maggio di tutti gli anni si celebrava la festa del patrono.


En una de ste ocasiòn, don Federico, che el era on pretét de Fondaso (dighe pretét parché el era pithol e gobét), el l'è gnést a dir mesa in tertho, mesa solene, con tre preti e tuti i chiericheti e el coro che cantéa la mesa dei Angeli, sonada con el armonio de Angelìn Sacrestan (Angelo Toigo); insòma: na mesa co tuti i lusi che pol aver na mesa, con tut el popolo presente e le tose vestide co el pì bel vestì che le avéa par farse veder bele ai oci dei tosàt; en pì, le campane che sonéa el campanò: insòma na mesa solene te na festa de preceto.

In una di queste occasioni, don Federico, che era un pretino (pretét) di Fonzaso (dico pretino perché era piccolo e gobbo), è venuto a celebrare messa solenne, con tre preti e tutti i chierichetti e il coro che cantava la messa degli Angeli, suonata con l'armonio di Angelin Sacrestan (Angelo Toigo); insomma: una messa con tutti i lussi che può avere una messa, con tutto il popolo presente e le ragazze vestite con il più bel vestito che avevano per farsi veder belle agli occhi dei ragazzi; in più, le campane suonavano il campanò: imsomma una messa in una festa di precetto.


Tornando a don Federico, par logica, el tema de la predica te na ocasìon così la era la vita del Santo en questìon.

Tornando a don Federico, per logica, il tema della predica in una occasione così era la vita del Santo in questione.


Tut el andèa ben: don Federico el parléa proprio ben, parole ben dite: el diséa che el nostro Santo el era proprio an gran Santo, però no l'à podest spiegar parché el era on gran Santo… Fin qua, noi artenat areson tuti d'acordo, sora la santità del santo; i particolari de la so vita i era problemi del santo e dei preti: par noi, tant me féa.

Tutto andava bene: don Federico parlava proprio bene, parole ben dette: diceva che il nostro Santo era proprio un gran Santo, però non ha potuto spiegare perché era un gran Santo … Fin qui, noi artenat eravamo tutti d'accordo, sopra la santità del santo; i particolari della sua vita erano problemi del santo e dei preti: a noi non interessava.


La bòmba la è sciopada quando el prete el à dit che San Gottardo el era "todesco"!... A ste parole la Césa l'è stata paralizada. Noi fedeli a sta dichiarathiòn avòn sentist pasàr par el fil de la schéna on bivido de aria ingiathada! Todesco! … No pol èser! … Tuti i santi dei paesi qua intorn i è italiani! A noi de Arten i me à mes te le costole on tedesco!

La bomba è scoppiata quando il prete ha detto che San Gottardo era "tedesco"! … A queste parole la Chiesa si è paralizzata. Noi fedeli a questa dichiarazione abbiamo sentito passare per il filo della schiena un brivido di aria ghiacciata! Tedesco!... Non poteva essere!... Tutti i santi dei paesi qua intorno sono italiani! A noi di Arten ci hanno messo alle costole un tedesco!


… Parché? … Cosa avòne fat de mal? …

… Perché? … cosa abbiamo fatto di male? …


En quel mòmento la Césa la è stata thita, thita! Se sentia volar le mosche; che a quei tempi ghe n'éra tante. El clima el era preparà par incominthiar na rivoluthiòn! I fedeli, convertidi de colpo en revoluthionari, i se vardéa tei oci un co l'altro: la rivolta! El spirito latino ofendést par el teutonico. Brusar la Césa? … Ciapàr scarpade i preti? … Taiarghe la testa a don Federico? …

In quel momento la Chiesa è rimasta zitta, zitta! Si sentiva volar le mosche; e a quei tempi ce n'erano tante. Il clima era pronto per cominciare una rivoluzione! I fedeli, convertiti di colpo in rivoluzionari, si guardavano negli occhi uno con l'altro: la rivolta! Lo spirito latino offeso per il teutonico. Bruciare la Chiesa? … Prendere a scarpate i preti? … Tagliargli la testa a don Federico? …


Meno mal che el predicator, ispirà da Dio che el deve averlo iluminà, e se à acort de la situathiòn che el avea provocà. E dopo aver pensà on poc, el à althà la testa e vardando intorn in quel silenthio de tòmba, con na retorica ben acomodada, el à spiegà el seguente (quel che vien ades): par San Gottardo el éser todesco no l'à nesuna importantha. No se dovéa pensar mal, parché no la è questiòn politica: el odio no l'à gnint a spartir co la religiòn. "Noi siamo tutti figli di Dio. – el diséa don Federico – Dio non ha creato la politica, nemmeno le nazioni! Dio ha fatto l'amore e non l'odio. Questa è una questione di fede, una questione di religione, non politica …"

Meno male che il predicatore, ispirato da Dio che deve averlo illuminato, si è accorto della situazione che aveva provocato. E dopo aver pensato un po', ha alzato la testa e guardando intorno in quel silenzio di tomba, con retorico ben accomodata, ha spiegato quanto segue: per San Gottardo esser tedesco non ha nessuna importanza. Non si doveva pensare male, perché non è una questione politica: l'odio non ha niente da spartire con la religione. "Noi siamo tutti figli di Dio. – diceva don Federico – Dio non ha creato la politica, nemmeno le nazioni! Dio ha fatto l'amore e non l'odio. Questa è una questione di fede, una questione di religione, non politica…"


Con ste parole ben dite el à calmà on poc i animi.

Con queste parole ben dette ha calmato un po' gli animi.


"In Germania e in Austria – el à continuà – ghe n'è on mucio de Santi italiani e i todeschi i li rispeta e i ghe ol ben. E in pì – el disà – san Gottardo el è on gran santo, parché el lo à santificà el Papa de Roma. El Papa el savéa che san Gottardo el era on bon òm; el conoséa tuti i meriti de santità che el avéa. En pì – continuéa don Federico – en pì el à studià in Italia e è venuto per attingere la nostra cultura e versarla tel popolo todesco … "

"In Germani e in Austria – ha continuato – ci sono un mucchio di Santi italiani e i tedeschi li rispettano e gli vogliono bene. In più – diceva – san Gottardo è un gran santo, perché è stato santificato dal Papa di Roma. Il Papa sapeva che san Gottardo era un buon uomo; conosceva tutti i meriti delle santità che aveva. In più – continuava don Federico – ha studiato in Italia ed è venuto per attingere la nostra cultura e versarla tel popolo tedesco …"


- Anca a San Gottardo, come a noialtri, alora, ghe piaséa polenta e formai frit. – (se à pensà noi de Arten che se avéa na idéa precisa de la cultura).

- Anche a San Gottardo, coma a noi, allora, gli piaceva polenta e formaggio fritto. – (abbiamo pensato noi di Arten che avevamo un'idea ben precisa di cultura).


"E se il Papa lo ha fatto santo è perché aveva le sue ragioni. E se voi di Arten avete per patrono un santi tanto grande, dovete sentirvi orgogliosi."

"E se el Papa el lo à fat santo el è parché el avéa le so resòn. E se voialtri di Arten avé par patrono on santo tant grant, dové sentirve orgogliosi."


Dopo aver ben pensà par tuta la mesa, i òmin te le ostarie e le femene so le case i se à convinto che san Gottardo el era e el dòvea èser stat on gran vescovo. La resòn che i lo abia mes nostro patrono el è on problema dei preti e no de la dént. E se el destino co la volontà de Dio i lo à mes a Artén, così sia. Così san Gottardo el è tornà de novo sol cor dei artenat.

Dopo aver ben pensato per tutta la messa, gli uomini nelle osterie e le donne nelle case si sono convinti che san Gottardo era e doveva essere stato un gran vescovo. La ragione per cui lo hanno messo nostro patrono è un problema dei preti e non della gente. E se il destino con la volontà di Dio lo hanno messo ad Arten, così sia. Così San Gottardo è tornato nei cuori degli artenat.


Crede che don Federico el sarà mort séntha pardonarse el so eròr: ghe à falà poc che el podéa rovinar la fede dei artenat. Amen.

Credo che don Federico sarà morto senza perdonarsi quell'errore: è mancato poco che rovinasse la fede degli artenat. Amen


Tratto da VITA GRAMA - Florindo Simonetto

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