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L'alluvione del 1966
Nel Novembre 1966 ad Arten il torrente Levica straripò e allagò buona parte del paese.Nello stesso periodo le acque del Cismon portarono via il ponte di Frassené.
Lunedì 29 Febbraio si terrà la tradizionale ricorrenza del "Ciamar Marz", in cui giovani e bambini scorrazzeranno per le vie del paese cercando di fare più baccano possibile per chiamare la primavera. Vi aspettiamo numerosi al centro parrocchiale alle ore 16.45 con tutto l'occorrente per far più rumore possibile.
Il tutto si dovrebbe concludere alle ore 18.00, in caso di maltempo la manifestazione verrà annullata.
Pubblicate nuove immagini del paese che si prepara al grande evento.
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In allegato una anticipazione del Programma per i festeggiamenti del Decennale Mariano.
Durante il dominio della Serenissima Repubblica di Venezia l’amministrazione della giustizia nella ''Provincia della Cargna'' era riservata al Tribunale di Tolmezzo e le pene erano ratificate dal Consiglio della Terra.
Di quali delitti si macchiavano i nostri progenitori in quei secoli remoti? Sicuramente degli stessi che fanno tanto scalpore nella nostra società attuale e di questi non ne furono certamente esenti i nostri compaesani. Si andava dalle imprecazioni alle ingiurie, dalle violenze al furto, dalle percosse agli omicidi.
Lo storico locale Giovanni Gortani, già altre volte citato, ha trascritto numerosissime sentenze criminali emesse dal sopraccitato Tribunale; di queste, abbiamo potuto esaminare gli anni 1538-1565 ed emergono un numero impressionante di atti di violenza. In quel periodo, in Carnia, vi furono diciannove persone che, per mano altrui, persero anche la vita e la maggior parte di questi omicidi avvenne sempre a seguito di liti furibonde. Semplici diverbi scoppiati per cause apparentemente futili, complice molte volte l’alcool, sfociavano in atto di violenza che, alle volte, poteva divenire mortale se l’aggressore brandiva un qualsiasi oggetto offensivo (legno, sasso, pugnale, spada).
I castighi naturalmente erano proporzionati alla gravità della colpa e per il colpevole, sempre identificato con certezza di prove, costituiva un’aggravante determinante la sua contumacia. Ciò portava inevitabilmente ad un inasprimento della pena. Si andava dalla sanzione pecuniaria alla fustigazione, dalla messa alla berlina alla carcerazione, dal bando temporaneo al servire sulle galere venete. Nei casi più gravi era previsto il taglio della mano destra ed anche la pena capitale che, per il condannato, prevedeva, nei tempi più antichi, la decapitazione con successivo squartamento; ultimamente divenne d’uso anche l'impiccagione.
Di tutti i casi di omicidio esaminati, in solo due di essi il Tribunale di Tolmezzo emanò, al termine del processo, una sentenza capitale. La prima “sententia criminalis decapitatoria ad mortem” fu emessa nel 1540 a carico di un certo Valentino figlio del fu Domenico Pilinini, pescatore di Somplago di Cavazzo, riconosciuto colpevole di aver ucciso il suo compaesano Giorgio Biliani. Non ci è dato sapere se la pena
capitale, che prevedeva per il Pilinini il taglio della testa su di un palco appositamente preparato (“amputetur caput illius a spatulis”), sia stata eseguita.
Si concluse invece, effettivamente sul patibolo, la condanna a morte comminata a Piero figlio del fu Francesco Piero del Basso, nativo di Arten del distretto di Feltre. Costui era un balordo vagabondo che andava elemosinando fingendosi ammalato. Fu riconosciuto colpevole di aver assassinato a bastonate, nei pressi di Forni di Sotto, un vero e povero mendicante di Treviso il quale, per giunta, era anche gobbo. La sentenza di condanna a morte venne emessa il 24 novembre 1539 ed eseguita nello stesso giorno ''...et presente multitudine tam populo quam territorij.'' (e presente una moltitudine tanto di popolo – di Tolmezzo, n.d.r. - quanto del territorio), come attestò il notaio Cristoforo Angeli che la annotò nei pubblici registri: ''...Petrum Bassi predictum, taliter quod obijt hic in Platea Tumetij, et ita divisum duxit extra portam inferiorem in loco solito, ubi in furcis quartas suspendit...'' (il predetto Pietro di Basso è stato squartato in quattro parti di modo che è morto qui sulla piazza di Tolmezzo e così diviso è stato portato fuori della Porta di Sotto, nel solito luogo, dove i quarti sono stati appesi sulle forche).
Da ''La Storia: Capitolo Quarto'' - Giulio Del Bon
Bortol Susin Innocente fu Pietro detto «Bortolo Coder» o, meno comunemente «Bortol Chegola»: era nato nel 1871; morì, povero e solo, nel 1956.
Fu persona mite e tranquilla, ma sfortuna di non poter avere lineamenti regolari gli si ritorse contr e gli fece vivere un’esistenza soggetta agli scherzi talvolta molesti dei suoi paesani e alle prese in giro burlone.
Gli Arteniesi si distinsero, soprattutto nel passato, per l'attenzione causticamente rivolta ai difetti altrui (massime degli estranei) e al gusto mordace di evidenziarli. Abbiamo ricordato nella prima parte di questa ricerca «Meno Minot»; richiamiamo qui brevemente alla memoria le vicende di un povero diavolo trapiantato ad Arten da Arten partitosi con l'amarezza di non esservi potuto regnare. Poiché natura lo aveva fatto nascere un po' più brutto degli altri dovette dimenticare il suo nome di battesimo per assumere quello di «Zaca-grili», impietosamente pronunciatogli in faccia e gridatogli dietro per le strade e nelle osterie. Un giorno il povero «Zaca-grili» trovò il gabinetto di legno in mezzo al paese, esposto alla contemplazione e alle risa e questo, a dire il vero, fu uno scherzo un po' troppo esagerato.
Bortol Susin aveva il labbro inferiore vistosamente conformato a sacca rigonfia ed ecco l'origine del soprannome che gli causò dispiaceri finché visse.
Per il resto era nato da donna come tutti, rispettoso e devoto, assiduo frequentatore della Chiesa, crocifero per scelta e per amore.
In età avanzata l'abitudine alla preghiera era trasformata in lui in una specie di fissazione, per cui recitava le sue orazioni ad alta voce, ovunque, soprattutto davanti a un capitello, accompagnandole da un incontrollato gesticolare e da ripetuti segni di croce che suscitavano le risa.
All’anagrafe era iscritto come agricoltore, in realtà arrivò a sperimentare anche l'umiliante condizione del nulla abbiente, solo e abbandonato, ma incapace di elemosinare per un istintivo senso di discrezione e di dignità.
La Marietta «Bach», che gli abitava vicino, lo sapeva e gli chiedeva:
-Avete mangiato oggi?
Egli rispondeva evasivamente, tutto confuso e lei capiva che se non gli avesse dato una fetta di polenta avrebbe saltato il pasto.
Per la croce egli nutriva venerazione e rispetto particolari. Se ne era tacitamente arrogato il privilegio di portarla, davanti a tutti, nelle processioni e nei funerali.
Ora avveniva che lungo il Canalet passasse la seconda Rogazione: quella che, provenendo da San Nicolò e da Tavarser, giungeva fino al confine con il comune di Pedavena.
Il sacerdote sostava per benedizione davanti al Signor del Castel, alla Croce di Golli, a un altarino con immagine sacra che la Marietta esponeva all'ingresso di casa sua e quindi al capitello di confine.
Poco oltre metà strada Bortolo Susin aveva una vigna e desiderava vivamente che il sacerdote si fermasse a benedirla, ma non vi era alcun simbolo di fede che ne giustificasse la sosta. Ecco allora nascere un lui l'idea di porvi una croce. B.T. afferma che era ancor piccolo quando Bortolo «Coder» andava da suo padre a chiedergli un'offerta, un contributo per piantare la croce e ricorda che suo padre gli diceva:
- Ma, andate a raccogliere soldi per piantare una croce? Se non ne avete fate a meno di piantarla.
Alla fine il vecchio la spuntò.
Il castagno sembrerebbe essergli stato donato da «Micel Paz» (Michiele Toigo) che possedeva una vigna a confine; la squadratura sarebbe stata eseguita da un altro vicino.
Tutto il lavoro di preparazione, invece, fu opera sua. Poi, quando il grande legno fu fissato al suolo, prima ancora che venisse raggiunto processionalmente per essere benedetto, ci fu l'esplosione di gioia di tutti coloro che in qualche modo avevano dato una mano.
Si prepararono alcune tavole davanti all’osteria di «Minot» (attuale civico 120 si Via Nuova) e si fece una grande merenda alle grida di «Eviva Bortol Susin!... Eviva Bortol… Coder!».
Eravamo poco oltre il 1930 e parrebbe che quella fosse anche la prima croce ad essere eretta in quel luogo.
La Rogazione incominciò a fermarsi a Bortolo Susin dovette in cuor suo essere contento; ma lo spireito cattivello degli abitanti di Arten, che non poteva starsene a lungo sopito, si risvegliò prontamente.
Come se non bastassero i molti tiri che gli venivano giocati mentre lavava i panni nell'acqua del torrente o l'oscuramento della finestra mentre si radeva la barba, di mattina presto, prima che la processione passasse, istigati dai grandi, i ragazzi raggiungevano la croce e vi appendevano un coder bene in vista.
Quello che succedeva quando Bortolo, passando davanti a tutti, vi posava gli occhi, non ha bisogno di essere menzionato.
Il nostro vecchio morì e la croce, non avendo più chi la curasse, marcì velocemente a causa delle infiltrazioni d'acqua che penetravano dalle tavole del tetto.
Il Cristo di legno, invece, crivellato dal tarlo per vetustà, e reperito chissà dove, venne nascostamente «deportato».
La croce attuale non è più quella di prima. Essa venne completamente rinnovata nel 1981 da Remo «Cos-cion» (Remo Toigo), (1) il quale contribuì in questo modo a salvare uno dei pochi segni che ancora ci ricordino il nostro debito di civiltà verso coloro che ci hanno preceduto.
Giuseppe Toigo